Concordato liquidatorio in soffitta

Da alcuni mesi è in discussione il disegno di legge per la delega al Governo della “riforma organica” delle discipline della crisi d’impresa. Quali saranno le conseguenze della prossima revisione della legge fallimentare sul concordato preventivo di stampo liquidatorio, uno degli strumenti più utilizzati dall’imprenditore in crisi negli ultimi dieci anni?

Definita “organica” in quanto si propone di raccogliere in un unico testo le discipline delle diverse situazioni che riguardano la crisi

dell’impresa e l’insolvenza civile, la riforma delle discipline delle crisi d’impresa comprende la liquidazione giudiziale (espressione che sostituisce quella di “fallimento”), il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione, i piani attestati, l’amministrazione giudiziaria, la liquidazione coatta amministrativa e la soluzione della crisi da sovraindebitamento, a cui si aggiungerà una disciplina per i gruppi di imprese e procedure di allerta della crisi. Stringendo il fuoco sul concordato preventivo, che risulta la procedura per la soluzione della crisi d’impresa alternativa al fallimento di gran lunga più praticata negli ultimi dieci anni, la novità più rilevante riguarda la rimozione della formula del concordato preventivo cosiddetto liquidatorio, eseguito attraverso la cessione di tutti i beni.

Il testo di presentazione del disegno di legge dichiara espressamente il favore verso il solo concordato in continuità e cioè verso quella forma di concordato che proponga la prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività aziendale come strumento per la soluzione della crisi.

La ragione della scelta poggia sul rilievo che, nell’esperienza degli ultimi dieci anni, i concordati per cessione dei beni non hanno saputo offrire ai creditori una soluzione davvero più vantaggiosa rispetto alla liquida- zione fallimentare, scontando costi maggiori di presentazione (per il coinvolgimento di un numero più elevato di professionisti), senza il vantaggio di un procedimento di accertamento dei crediti affidabile per l’intera platea dei creditori che invece contraddistingue il fallimento.

Il concordato liquidatorio dunque, nel volgere di pochi mesi, ha visto cadere le proprie fortune passando dal suo culmine (registrato con la L. 134/2012 responsabile dell’introduzione del voto per silenzio assenso dei creditori, volto a favorire principalmente i concordati liquidatori che costituivano la maggioranza) a una fase di declino, con l’introduzione del voto palese e di una soglia minima del 20% di soddisfacimento del ceto chirografario (varata con la L. 132/15), fino alla prossima e definitiva uscita di scena proposta con il disegno di legge ora in discussione.

Il legislatore, nell’oscillazione tra posizioni estreme adottate nell’arco di breve tempo, ha bocciato il suggerimento della “commissione Rordorf”, istituita per elaborare proposte di riordino e di riforma delle procedure concorsuali, che aveva proposto la conservazione del concordato liquidatorio alla con- dizione che si avvantaggiasse di apporti di terzi per soddisfare le ragioni dei creditori in misura apprezzabilmente maggiore rispetto all’alternativa fallimentare.

La scelta di respingere una soluzione che avrebbe offerto al ceto chirografario misure di soddisfacimento più elevate rivela una matrice ideologica, che si candida già a fu- ture revisioni allorché il sistema giudiziario entrerà nuovamente in crisi, soverchiato dall’esubero di procedure fallimentari.

Il legislatore ha optato per una soluzione estrema e sinceramente poco aderente al piano di realtà, volta a spostare sul concordato fallimentare l’opzione liquidatoria, con apporto di ulteriori risorse che accrescano l’attivo ripartibile a vantaggio del ceto creditorio.

Il prevedibile insuccesso dell’iniziativa è anticipato dalla riflessione che se è ipotizzabile l’apporto di risorse ulteriori, a sostegno di un concordato preventivo che (almeno) eviti il fallimento, appare invece eccezionale la probabilità che il debitore si faccia carico, attraverso nuova finanza, di una parte del passivo al solo scopo di accorciare i tempi della liquidazione fallimentare.

Si aggiunga inoltre che, comprensibilmente, il debitore riserva l’apporto di risorse al momento in cui, chiamato a rispondere di reati di bancarotta, ha modo di utilizzare l’offerta di danaro in termini di scambio, con la rinuncia del curatore alla costituzione di parte civile nel processo penale o al riconoscimento da parte del Tribunale di attenuanti legate alla condotta risarcitoria.

Dunque la scelta di eliminare completa- mente la figura del concordato preventivo liquidatorio, condizionando all’apporto di nuova finanza quello “fallimentare”, non appare destinata a produrre risultati né in termini deflattivi dell’attività giudiziaria, né in termini di maggior vantaggio per la platea dei creditori i cui interessi concreti sono sacrificati sull’altare dell’approccio dogmatico teso a mostrare che dalla prossima riforma in avanti sarà agevolata soltanto la solu- zione della crisi che riesca a conservare la sopravvivenza dell’impresa.

Peraltro l’abbandono del concordato liquidatorio potrebbe (in parte) riflettersi negativamente anche sulla salvezza dell’impresa in tutti i casi in cui la soluzione della crisi sia offerta attraverso l’affitto dell’azienda anticipato rispetto alla procedura concorsuale. La giurisprudenza è per lo più orientata a valutare le ipotesi di affitto aziendale preventive al concordato come soluzioni liquidatorie sulla considerazione che il rischio dell’imprenditore si sposterebbe dall’attività imprenditoriale (utilizzata come strumento di soluzione della crisi) a quella di semplice esattore del canone di affitto con un considerevole abbassamento del rischio d’impresa limitato alla solvibilità del nuovo esercente l’impresa che è tipico di qualsiasi attività liquidatoria.

Nella nuova prospettiva, queste soluzioni, che non sono numericamente modeste, saranno destinate ad essere gestite in un contesto fallimentare (o di liquidazione giudiziale secondo la prossima nuova definizione dell’istituto) dove viene da chiedersi tuttavia se sopravvivranno.

Infatti non si vede per quale motivo l’imprenditore debba attivarsi nel cercare un concorrente a cui trasferire in affitto la gestione dell’azienda nella sola prospettiva del proprio fallimento, né soprattutto è difficile immaginare il concorrente che accetti prima del fallimento la gestione di un’azienda a un prezzo superiore rispetto a quello che potrebbe scontare successivamente (senza dire che il concorrente si avvantaggerebbe comunque dal fallimento dell’imprenditore insolvente senza la necessità di affittargli l’azienda).

In conclusione, la prospettiva di abbandonare il concordato liquidatorio spinge la soluzione della crisi verso la sola continuità diretta (d’azienda), mandando in archivio tutta una serie di ipotesi fiorite negli ultimi dieci anni che, se non sono state in grado di garantire risultati straordinari in termini di soddisfacimento del ceto chirografario, quantomeno hanno sottratto al fallimento un numero rilevantissimo di società, consentendo di approdare a misure di soddisfacimento comunque ampiamente più elevate di quelle ottenibili in sede di fallimento, non foss’altro per la diversa motivazione di cui è animato l’imprenditore in ambito concordatario.

La buona notizia è che l’attuale sventurata crisi di governo allontanerà il progetto di riforma della legge fallimentare, permettendo ancora per qualche mese di approfittare della attuale disciplina legislativa per risolvere la crisi attraverso il duttile strumento del concordato liquidatorio, senza la necessità di alcun apporto di nuova finanza.


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