Misure cautelari e abusiva concessione del credito
Fonte: Trib. Vicenza sez. I, 22 ottobre 2024 Est. dott.ssa Silvia Saltarelli
La concessione della misura cautelare volta ad inibire l’escussione della garanzia pubblica presuppone l’accertamento della sua funzionalità all’attuazione della sentenza di omologa dello strumento di regolazione della crisi scelto, nel caso di specie il concordato; strumentalità ravvisabile a condizione che la nullità per abusiva concessione del credito dei contratti di finanziamento con garanzia pubblica concessi al debitore emerga nella proposta concordataria.
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Massima
L’istanza cautelare volta ad inibire al ceto bancario l’escussione della garanzia pubblica che assiste i crediti chirografari difetta del carattere della strumentalità ove la proposta concordataria, alla cui realizzabilità la misura dovrebbe essere diretta, non delinei con chiarezza gli elementi tipici del reato di ricorso abusivo al credito da cui far discendere la nullità dei contratti garantiti.
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Il caso
Una società in concordato preventivo ha chiesto ex art 54 comma 1 ccii al Tribunale di inibire ad alcune banche l’escussione della garanzia MCC – SACE sul presupposto della nullità dei finanziamenti erogati per concessione abusiva del credito.
Il Tribunale accoglie il reclamo presentato dagli istituti di credito ribaltando la prima decisione che aveva concesso la misura.
Il collegio osserva come il provvedimento cautelare debba assicurare l’attuazione dell’omologa del concordato con riguardo alla ragione per cui viene domandato mentre nella fattispecie manca il collegamento con il provvedimento finale di cui si vorrebbe anticipare l’attuazione in quanto nella domanda di concordato mancano la descrizione del reato, i profili di responsabilità che deriverebbero dalla promuovenda azione di responsabilità, non sono indicati gli amministratori che hanno concorso alla consumazione dell’illecito e non è stata né avviata né pronosticata l’azione civile volta a conseguire il danno lamentato i cui riflessi (positivi o -in caso di insuccesso- negativi) si riverserebbero sulla platea dei creditori.
In difetto di questi fondamentali elementi, il provvedimento cautelare richiesto manca del requisito che lo connota come misura idonea a dare attuazione allo strumento di regolazione della crisi prescelto e non può pertanto trovare accoglimento.
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La soluzione giuridica
Il provvedimento incrocia due temi altrettanto delicati: il perimetro delle misure cautelari negli strumenti di regolazione della crisi e le conseguenze derivanti dalla concessione abusiva del credito.
Il primo tema permette di svolgere alcune osservazioni sul significato delle misure cautelari nel tessuto degli strumenti di regolazione della crisi e aiutare a comprendere in quali contesti vadano applicate.
Le misure cautelari nel codice della crisi hanno tutte la stessa radice che affonda nella definizione dettata all’art. 2 comma 1 lettera q) ccii, ma non per questo hanno il medesimo range di copertura nei diversi contesti nei quali trovano spazio di applicazione.
La norma citata affida alla misura cautelare il fine ad assicurare: i) il buon esito delle trattative; ii) gli effetti degli strumenti di regolazione della crisi e delle procedure di insolvenza; iii) l’attuazione delle relative decisioni.
Non tutti questi fini valgono ugualmente per ciascuna delle soluzioni adottate dall’imprenditore per la soluzione della crisi: l’art 19 ccii, nel contesto della Composizione Negoziale, prevede solo l’adozione di provvedimenti cautelari del primo tipo (necessari a condurre a termine le trattative) mentre quelle del secondo e terzo tipo (a tutela degli effetti e dell’attuazione delle decisioni di omologa) si coniugano solo con gli strumenti di regolazione della crisi (o con le procedure di insolvenza, di cui qui non interessa trattare).
L’art. 54 comma 1 ccii riprende la stessa definizione coniata dall’art 2 lett. q) ccii per le misura cautelare salvo restringere il campo a quelle “che appaiono secondo le circostanze più idonee ad assicurare provvisoriamente «l’attuazione» delle sentenze di omologa di strumenti di regolazione della crisi”.
In questo solco ogni altra misura cautelare volta a tutelare l’impresa nella fase delle trattative è affidata alle c.d. “misure atipiche” indicate dall’art 54 comma 2 parte terza ccii; in tal caso, per assicurare la loro strumentalità alle iniziative assunte dall’imprenditore, si richiede anche il deposito della proposta, del piano o degli accordi, nonché della documentazione prevista dall’art. 39 comma 3 ccii, e ciò al fine di dimostrare che le condotte e le azioni dei creditori contro cui le misure cautelari puntano ostacolano effettivamente il buon esito delle iniziative assunte per la regolazione della crisi o dell’insolvenza.
Il merito della pronuncia è dunque aver applicato con rigore il dettato normativo: le misure cautelari, appartenendo alla medesima natura di quelle indicate dall’art 700 cpc (di cui infatti riecheggiano la strumentalità agli effetti della decisione), pur non richiedendo lo sviluppo della causa del merito, richiedono di delineare con chiarezza ed esattezza il fine che si intende assicurare, obbligando il richiedente a declinare con precisione la fattispecie dell’illecito ad argine del quale la misura richiesta si pone e le iniziative specifiche adottate dal proponente per rimuovere gli effetti dell’illecito stesso, compito che sfugge alla misura cautelare.
La pronuncia è dunque un monito contro la superficialità con cui alcuni vorrebbero, attraverso richieste cautelari, impedire un pericolo solo adombrato senza descriverlo dettagliatamente, eludendo tutti quegli sforzi allegativi e probatori che in un’azione civile sarebbe d’obbligo osservare introducendo una causa di merito al cui servizio la misura cautelare si pone come strumento di anticipazione degli effetti.
Ma il provvedimento offre lo spunto per allargare il fascio d’indagine su un secondo tema con cui il primo si intreccia costituito dall’abusiva concessione di credito che rappresenta spesso una zona d’ombra a cui frequentemente i curatori fanno ricorso per escludere un credito o reclamare un risarcimento.
L’abusivo ricorso al credito trova aggancio normativo nell’art. 325 ccii e su di esso può innestarsi il concorso nel reato della banca con gli amministratori[1]; la fattispecie della concessione abusiva di credito non ha una tipizzazione normativa espressa ed è frutto di una elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sviluppata in ambito civile e concorsuale si fonda sulla violazione dei principi di sana e prudente gestione (art. 5 TUB) e di valutazione del merito creditizio
Detta fattispecie rappresenta una causa di responsabilità nei confronti dell’impresa finanziata che trova radice negli artt. 1176, 1218 e 1337 cc ovvero nell’ art. 2043 cc a seconda che la curatela alleghi un danno al patrimonio sociale ovvero alla massa dei creditori[2] (cfr Cass. 18610/2021).
La Suprema Corte chiarisce come, sebbene nel nostro ordinamento non esista un dovere generalizzato di impedire fatti da cui derivi danno all’altrui patrimonio, la normativa che regola il sistema bancario impone al soggetto finanziatore l’obbligo di rispettare i principi di sana e corretta gestione, verificando il c.d. “merito creditizio” del cliente in quanto “l’attività di concessione del credito da parte degli istituti bancari non costituisce un mero affare privato tra le stesse parti del contratto di finanziamento” (Cass. 18610/2021).
Poiché nel provvedimento in commento il debitore pretendeva l’applicazione della misura cautelare in ragione della nullità dei contratti di mutuo per concessione abusiva del credito si rende opportuno indagare la sorte del contratto di finanziamento in caso di addebito dell’illecito di concessione abusiva di credito.
Secondo quanto emerge da un recente filone giurisprudenziale presso le corti di merito (Tribunale di Padova, sentenza del 7 novembre 2024, in www.ilcaso.it), la violazione delle norme sul merito creditizio (art. 5 TUB) da parte dell’ente finanziatore non concreta una regola di validità da cui far discendere la nullità del contratto (art. 1418 cc), bensì unicamente una norma di condotta, costituendo, al più, il presupposto per la condanna al risarcimento dei danni ma senza inficiare gli elementi costitutivi del contratto; secondo questa giurisprudenza l’ipotesi della nullità dei contratti di finanziamento è ricollegata a casi in cui sono state rinvenute condotte delittuose e dunque la nullità è una conseguenza del reato e non della mera violazione di norme relative al merito creditizio[3].
Su questa linea si attesta anche il Tribunale di Piacenza con sentenza del 8 gennaio 2025[4] (trattasi di un’opposizione a stato passivo) ove statuisce che: “va concettualmente distinta la fattispecie della concessione abusiva del credito quale illecito civile commesso da parte del soggetto finanziatore – fattispecie di responsabilità sussumibile sotto la norma generale ex art. 2043 e per la cui ricorrenza è necessario che il soggetto danneggiato alleghi e provi tutti gli elementi costitutivi (condotta, elemento soggettivo, nesso di causa, danno evento, danno conseguenza) – dalla eccezione di nullità di un contratto di finanziamento per contrarietà a norme imperative ex art. 1418 co 1 c.p.c., in quanto il negozio si pone in diretto contrasto con la specifica norma penale che sanziona l’aggravamento del dissesto con operazioni gravemente colpose (art 217 l. fall., ora art. 323 ccii)”.
A prescindere dalle difficoltà classificatorie, che tuttavia consentono di comprendere ancor meglio la motivazione del Tribunale di Vicenza là dove enfatizza la necessità di un’esatta ricostruzione dell’illecito imputabile alla banca e agli amministratori per le conseguenze che da essa possono derivare, la descrizione emergente dalla giurisprudenza di concessione abusiva del credito prevede il caso in cui la banca conceda credito pur sapendo, o potendo sapere, che l’impresa finanziata versi in uno stato di dissesto irreversibile (Tribunale Milano, sentenza n. 1218 del 30 novembre 2023, in www.giurisprduenzadelleimprese.it) e dunque in favore di chi si palesi insolvente (Cass. n. 18610/2021).
Non integra, invece, alcun illecito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi (Cass. n. 28320/2024; anche Tribunale di Pescara, decreto del 2 luglio 2024, in www.ilcaso.it).
Il Testo Unico Bancario invita infatti il soggetto finanziatore ad attenersi ai principi di “sana e corretta gestione nell’erogazione del credito” (artt. 5, 120 novies, 120 undecies e 124 bis TUB), dovendo verificare di volta in volta il merito creditizio del cliente in forza di informazioni adeguate[5].
In conformità si sono espresse anche le linee guida EBA con l’obiettivo di orientare le banche verso modelli prudenti per la concessione del credito, prevenendo la possibilità che diventi non performing; in particolare indicano che ai fini della sua valutazione “gli enti dovrebbero avere a disposizione e utilizzare informazioni supportate da elementi probatori necessari e adeguati, almeno in relazione a quanto segue:
a. finalità del prestito, se pertinente per il tipo di prodotto;
b. reddito e flusso di cassa;
c. posizione e impegni finanziari, comprese le attività costituite in garanzia e le passività potenziali;
d. modello di business e, se del caso, struttura aziendale;
e. piani aziendali supportati da proiezioni finanziarie;
f. garanzia reale (per i prestiti garantiti);
g. altri fattori di attenuazione del rischio, come eventuali garanzie personali;
h. documentazione legale specifica del tipo di prodotto (ad esempio, permessi, contratti)” (p.to 86 delle linee guida EBA).
L’elenco, ci consente di svolgere una prima significativa considerazione: l’attenzione dell’istituto di credito deve concentrarsi sulla capacità della società richiedente il credito di produrre liquidità al servizio del rimborso del debito bancario, atteso che le garanzie reali rappresentano solo l’ultima tutela ricorribile in una situazione di default già dichiarato.
Quest’orientamento converge peraltro con il codice della crisi ove, da un lato, all’art 3 comma 3 indica la finalità degli adeguati assetti (obbligatori) nella idoneità a consentire la verifica della sostenibilità dei debiti e, dall’altro, definisce la crisi come lo stato del debitore i cui flussi di cassa prospettici non si palesano più idonei a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi (art 2 comma 1 lettera a) ccii).
Pertanto la fonte istruttoria decisiva per la concessione del credito sono (o dovrebbero essere):
-il rendiconto di cassa;
-il piano finanziario;
-l’analisi di tutti gli impegni finanziari del richiedente che emergono dalla Centrale Rischi;
-la valutazione del modello di business, nonché le strategie adottate e che intende adottare l’imprenditore;
-il piano aziendale, tra cui certamente rientrano le informazioni relative alle motivazioni che spingono l’impresa a chiedere il prestito, la struttura organizzativa di cui è dotata e il contesto in cui opera (mercato, concorrenza, clienti e fornitori).
In merito alla documentazione da analizzare, sempre il Tribunale di Piacenza nella pronuncia del 8 gennaio 2025 sopra citata, ha chiarito come la responsabilità del finanziatore risieda nell’essersi limitato ad una mera verifica cartolare di dati, senza analizzare la concreta effettiva realtà aziendale da finanziare e senza prendere atto di informazioni e dati agevolmente reperibili da banche-dati pubbliche, risultando così – in base ad una valutazione ex ante ed in concreto – in colpa grave nella concessione del finanziamento.
Nel caso citato, in particolare, la banca aveva omesso di verificare il piano di risanamento del debitore o comunque il suo business plan da cui avrebbe dovuto emergere (ex ante) l’effettiva possibilità dello stesso di superare lo stato di crisi e ciò in quanto “non basta a qualificare come diligente la sola consultazione di report contenenti giudizi di sintesi sul merito creditizio e attestanti la mancanza di specifici eventi integranti indici di difficoltà economica (come protesti o procedure esecutive), in quanto ad un soggetto altamente professionale è richiesta la verifica concreta e puntuale delle effettive condizioni finanziarie e economiche del soggetto finanziato, non potendo confidare solo su giudizi o dati aggregati di sintesi forniti da terzi (per quanto professionalmente riconosciuti nel settore del rating)” (sempre Tribunale di Piacenza del 8 gennaio 2025 pubblicata in www.ilcaso.it).
Non è però richiesto che l’analisi dell’istituto di credito sfoci in verifiche possibili solo ex post e all’esito dell’apertura della liquidazione giudiziale quali ad esempio l’accertamento di poste contabili false o sovrastimate la cui emersione è possibile solo a seguito della riclassificazione dei bilanci operata dalla curatela (Tribunale di Napoli, sez spec in materia di impresa, sentenza del 23 ottobre 2024, inedita).
L’onere della prova della concessione abusiva del credito incombe sulla società -o sulla curatela ove fosse intervenuta la liquidazione giudiziale- tesa a dimostrare:
- la violazione delle regole che disciplinano l’attività bancaria, caratterizzata da dolo o colpa;
- il danno evento, dato dalla prosecuzione in perdita dell’attività d’impresa;
- il danno conseguenza, rappresentato dall’aumento del dissesto: deve infatti provarsi che il credito sia stato concesso o mantenuto allorquando il debitore si trovava in uno stato di insolvenza irreversibile;
- il rapporto di causalità fra tali danni e la condotta tenuta alla stregua della teoria della causalità adeguata di cui all’art. 1223 cc.
Nella maggior parte dei casi l’abusiva concessione del credito viene per la prima volta sollevata in sede di accertamento del passivo per negare l’insinuazione ai crediti degli istituti bancari ovvero agli amministratori e ai sindaci della fallita (tendenzialmente a titolo di compensi).
In tale contesto bisognerebbe però chiedersi se il giudice delegato possa accertare incedenter tantum l’illecito civile consistente nell’aver sostenuto finanziariamente un soggetto non più meritevole di credito, al solo fine di paralizzare la pretesa creditoria insinuata al passivo del fallimento.
A tale quesito ha di recente risposto la Suprema Corte nella sentenza n. 26193/2024, affermando che è ben possibile una quantificazione del danno patito dalla società a causa della prosecuzione dell’attività di impresa secondo il criterio equitativo dei netti patrimoniali a causa della concessione (abusiva) del credito anche in sede di verifica dei crediti al fine di constatare che il danno imputabile alla banca sia superiore al credito restitutorio dalla stessa vantato favorendo così l’esclusione dal passivo fallimentare.
Tuttavia anche dovessero essere rilevati segnali di crisi o di insolvenza reversibile, la banca andrà esente da responsabilità ove conceda credito nell’ambito degli strumenti adottati dall’imprenditore per la soluzione della crisi nel cui contesto, al contrario, potrà beneficiare della prededuzione (ad esempio, per la composizione art. 22, co. 1, ccii e per il concordato art. 99 ccii), per via che l’affidamento sulla risanabilità dell’impresa è confortato dalle relazioni dell’esperto e dal vaglio del tribunale.
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Osservazioni conclusive
L’ordinanza del Tribunale di Vicenza ricorda come l’aver adottato uno strumento di regolazione della crisi non autorizza la concessione di misure cautelari la cui domanda sfugga al rigore della prova dei presupposti richiesti dalla legge, che vanno allegati e dimostrati, e soprattutto che non è sufficiente reclamare vaghe ipotesi di nullità di un contratto di finanziamento per veder accolte le misure tese ad impedirne gli effetti se della illiceità e delle conseguenze in punto di responsabilità non è chiarito ogni aspetto così da consentire al giudice di pronunciare provvedimenti proporzionati e soprattutto fedelmente agganciati alle decisioni che sono chiamate ad attuare.
[1] Come del resto può verificarsi in caso di concorso in bancarotta semplice (Cass. 4376/2024; Cass. 16706/2020)
[2] Dalle condotte di abusivo ricorso o abusiva concessione del credito derivano in via prioritaria danni sia alla società amministrata o finanziata, stante la diminuita consistenza del patrimonio sociale in favore della continuazione dell’attività di impresa che tuttavia non presenta prospettive di risanamento, ma anche al ceto creditorio a causa delle ulteriori perdite cagionate dal protrarsi della gestione con incidenza sulla stessa capacità di adempimento del debitore.
[3] Il Tribunale di Padova, probabilmente spingendosi oltre le parole della Suprema Corte, cita a sostegno della propria tesi Cass. 26248/2024, ove invero la Corte di legittimità esclude la nullità del contratto osservando che nei precedenti gradi il giudice, dopo aver dedotto l’integrazione della fattispecie penalistica di cui all’art. 217 l. fall, non ha in alcun modo tratteggiato né l’elemento oggettivo né soggettivo del reato. Invero anche altre corti di merito, nell’accertare la nullità dei contratti di finanziamento deducono sempre a sostegno la fattispecie delittuosa (Tribunale di Ferrara, decreto del 3 maggio 2024) ovvero il contrasto con l’art. 316 ter cp, nel caso in cui il mutuo sia stato concesso dalla banca ad un soggetto insolvente e non in grado di restituirla allo scopo di estinguere un pregresso debito non garantito, sempre con il medesimo istituto, concedendo una nuova linea di credito garantita dallo Stato (Tribunale di Asti, ordinanza del 8 gennaio 2024).
[4] Tribunale di Piacenza, 8 gennaio 2025, in www.ilcaso.it
[5] Trattasi peraltro di principi che trovano eco anche in ambito internazionale (ad es. l’art. 142 Reg. UE n. 575/2013).