Ancora un intervento della Cassazione in materia di Leasing


La Cassazione negli ultimi anni ha tracciato confini netti in materia di leasing, rinviando all’art 72 quater l.f. la disciplina dei diritti nascenti dai rapporti vigenti e all’art 1526 c.c. quelli dei contratti risolti.

L’art 72 quater l.f., richiamando l’art 72 l.f., rimette al curatore la scelta di conservare il contratto pendente, ovvero di sciogliersene, dando vita a trattamenti ovviamente differenti.

Nel primo caso, subentrando in un contratto, il curatore sarà tenuto ad assolvere a tutte le obbligazioni passate e future, pagando le rate secondo le scadenze negoziali ovvero assolvendo al debito in un’unica soluzione con attualizzazione dei canoni a venire.

Nel secondo caso il concedente ha diritto all’immediata restituzione del bene e ad insinuare nel fallimento (in via chirografaria) il credito scaduto prima del fallimento, rinviando all’avvenuta collocazione del bene a prezzi di mercato l’ulteriore insinuazione per il residuo credito in linea capitale ove non interamente compensato con il ricavato della vendita; per il caso che dalla vendita si generi una sopravvenienza rispetto al capitale investito, la differenza sarà riversata al fallimento. (Cfr Cass. 21213/2017; Cass.4862/2010).

Diverso è invece il trattamento del concedente nel caso in cui il rapporto sia stato risolto ante fallimento, per inadempimento dell’utilizzatore.

In questi casi la Cassazione ripete come un mantra la distinzione tra leasing finanziario e leasing traslativo (da ultimo Cass 4698/2018) applicando per quest’ultimo, in via analogica -data la medesima finalità di scopo- la disciplina prevista dall’art 1526 c.c. per la figura della vendita con riserva di proprietà, che, in caso di risoluzione, attribuisce al venditore-concedente da un lato il diritto alla restituzione del bene oltre ad un equo indennizzo per il suo uso, e dall’altro l’obbligo di rendere i canoni percepiti, fatto salvo il diritto (ove pattuito) di trattenerli a titolo di indennità.

La Cassazione con sentenza del 16/05/2018 n 11962 si è inserita in quest’ultimo solco occupandosi di una questione, apparentemente marginale, che ha dato l’occasione di esprimersi sulla competenza a determinare l’entità dell’equo compenso.

Il problema è stato provocato dal concedente il leasing che, deluso della magra quantificazione dell’entità dell’equo compenso operata dal G.D. ha reclamato la competenza del giudice ordinario richiamando una sentenza di Cassazione (n 9974/1993) che provvedeva in tal senso in tema di risoluzione del contratto con patto di riservato dominio.

La recente pronuncia n.11962/2018 abbraccia la tesi (in verità sempre seguita dai giudici di merito) della competenza del Giudice Delegato senza però smentire il precedente del 1993 in cui la determinazione dell’equo indennizzo veniva chiesto non già dal creditore lessor in seno ad un procedimento di ammissione al passivo bensì dal curatore direttamente al G.d. che veniva ritenuto incompetente in quanto la domanda esulava dal suo perimetro circoscritto dall’art 25 n 8 l.f. (“il giudice delegato…omississ… procede all’accertamento dei crediti e dei diritti reali e personali vantati dai terzi a norma del capo V”).

Nel caso recente invece la questione era stata posta nel contesto della domanda di ammissione al passivo svolta dal creditore e dunque con piena competenza del giudice adito ad affrontare la determinazione dell’indennizzo per l’uso del bene.

La determinazione dell’indennizzo comporta il ricorso ad una certa discrezionalità da parte del giudice chiamato a contemperare diverse esigenze che, secondo alcuna giurisprudenza, albergano nel riferimento “all’uso della cosa” e rappresentate dalla remunerazione per il godimento del bene, dal deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo, dal logoramento per l’uso ed infine dal costo della risoluzione anticipata in cui entra in gioco il costo derivante dall’immobilizzazione del capitale impiegato per l’acquisto del bene e quello del rischio che il capitale rimanga immobilizzato per lungo tempo ovvero che il bene venga reimmesso sul mercato a valori di molto inferiori rispetto a quelli iniziali (cfr Trib Milano 7/6/2012 in www.ilcaso.it).

Per ovviare al difficile e spesso insoddisfacente calcolo posto alla base della determinazione dell’equo indennizzo, i giudici della sezione fallimentare del Tribunale di Milano hanno deciso di applicare un criterio semplice per la sua quantificazione pervenendo alla formula per cui sia pari al valore complessivo del contratto al netto del valore del bene al momento della riconsegna e delle rate pagate.

Prendendo a misura il valore del contratto, il criterio sopra indicato permette di remunerare correttamente il rischio del concedente nel finanziare l’acquisto di beni talora di difficile ricollocazione sul mercato, pur esponendosi alla critica di ricomprendere così anche il risarcimento del danno per il mancato guadagno che, secondo la Cassazione sarebbe estraneo all’art 1526 c.c. (Cass. 19732/2011; Cass 73/2010).

Queste disquisizioni sono in ogni caso destinate ad esaurirsi in quanto i contratti successivi all’agosto 2017 troveranno disciplina nel solco della L 124/2017 che oltre a dettare per la prima volta la definizione di contratto di leasing, stabilisce anche il criterio per la determinazione dell’indennizzo a favore del concedente che abbia risolto il contratto, indicandolo nella misura del ricavato dalla vendita del bene al netto delle rate scadute e non pagate ante risoluzione e a quelle a scadere in linea capitale, oltre al prezzo di opzione; se però dalla differenza dovesse derivare una sopravvenienza attiva, questa spetterebbe all’utilizzatore.

In ogni caso se la legge per il futuro aiuterà nella determinazione dell’ammontare dell’indennizzo da riconoscere al concedente, rimarrà comunque attuale l’insegnamento della Cassazione espresso con la recente sentenza n 11962/2018 che chiarisce la competenza del G.D. a determinarlo ove la domanda di credito venga svolta all’interno del fallimento.


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