Temi vecchi e nuovi della responsabilità degli organi sociali

di Gianfranco Benvenuto – avvocato

La pronuncia n. 21662/2018 della Corte di Cassazione offre lo spunto per affrontare alcune ricorrenti tematiche in materia di azioni di responsabilità promosse dai competenti organi di una procedura concorsuale nei confronti di amministratori e sindaci di società di capitali dichiarate insolventi, ossia la decorrenza del termine di prescrizione, il contenuto degli obblighi di vigilanza posti in capo ai sindaci e, infine, i criteri di liquidazione del danno.

La sentenza della Suprema Corte n.21662/2018

La Cassazione in data 05/09/2018 ha pubblicato la sentenza n 21662 in cui affronta le tematiche della prescrizione dell’azione e (soprattutto) della responsabilità dei sindaci per omessa vigilanza.

La sentenza sfiora altresì un altro tema importante nell’ambito della responsabilità degli organi, attinente alla liquidazione del danno nella misura pari alla differenza tra attivo e passivo su cui ritengo interessante proporre alcune riflessioni.

Su entrambi i fronti trattati la S.C. ripropone per molti versi argomenti già arati (cfr. in particolare Cass 31204/2017) aggiungendo tuttavia alcune considerazioni che aiutano a definire il perimetro di questioni che emergono in tutte le cause di responsabilità: la decorrenza dei termini di prescrizione dell’azione e il contenuto degli obblighi di vigilanza, mettendo un punto fermo su entrambi i temi.

Il contesto in cui sboccia la sentenza è quello del fallimento di una società il cui curatore rileva la violazione ai principi contabili che non solo hanno ritardato la tempestiva emersione della perdita del capitale sociale ma che hanno agevolato la scelta dell’organo amministrativo, non contrastato dall’organo di controllo, di distribuire ai soci utili fittizi accrescendo così l’impoverimento del patrimonio.

Dopo un paio di esercizi connotati da bilanci contenenti artifici che ne alteravano i risultati offuscandone le perdite, un terzo registrava le perdite accumulate, consegnano da lì a poco la società al fallimento.

Il danno veniva liquidato in via equitativa ex art 1226 c.c. nella misura della differenza tra attivo e passivo fallimentare, con un ridimensionamento in appello di circa un terzo dell’ammontare determinato in primo grado.

La funzione rivestita dal bilancio in merito alla definizione del dies a quo in tema di  prescrizione dell’azione di responsabilità

La prima questione sollevata dai ricorrenti attiene alla prescrizione quinquennale in ordine alla quale viene dedotta la decorrenza risalente al primo dei due bilanci precedenti a quello in perdita in quanto, ancorché artefatti, avrebbero consentito egualmente ai creditori di evincere l’insufficienza patrimoniale deducendola dalle relazioni dei sindaci ove veniva evidenziato lo squilibrio patrimoniale, la sottocapitalizzazione, l’indebitamento e la stessa inadeguatezza dei fondi di ammortamento.

La Cassazione obietta tuttavia che gli artifici contabili tesi a far apparire il risultato dei bilanci in pareggio o in utile erano proprio volti ad ingannare il pubblico impedendo così quella percezione di insufficienza patrimoniale da cui si vorrebbe far decorrere la prescrizione.

Le norme di riferimento per dirimere la questione sono l’art 2394 co 2 c.c. e l’art 2935 c.c. che dispongono, rispettivamente, che l’azione può essere proposta dai creditori «quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti»; in tal modo si richiama l’attenzione alla situazione oggettiva che si realizza allorché il patrimonio presenti un’eccedenza delle passività sulle attività di modo che risulti insufficiente al soddisfacimento dei creditori (cfr. Cass 9619/2009Cass.31204/2017).

La norma fa dunque riferimento alla garanzia patrimoniale generica dell’art 2740 c.c. che prescinde dal giudizio di insolvenza e perfino dalla perdita del capitale sociale, la cui cifra esprime solo il valore delle attività assoggettate ad un vincolo di indisponibilità a tutela dei creditori sociali e non si estende quindi necessariamente a tutti i valor attivi ricompresi nel patrimonio della società (cfr. Cass 28/05/1998 n 5287).

La seconda norma (l’art 2935 c.c.) esprime invece il principio generale secondo cui la prescrizione decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere: tale momento coincide con quello in cui il ceto creditorio, in senso astratto, ha la oggettiva percezione della inidoneità dell’attivo a soddisfare i debiti.

La combinazione delle due disposizioni porta alla conclusione che la percezione della perdita della garanzia patrimoniale prescinde dalla valutazione soggettiva di qualche categoria di creditore anche se attenta o attrezzata a cogliere l’inadeguatezza dell’attivo ma deve risultare da un dato inequivocabile apprezzabile obiettivamente.

Peraltro occorre aggiungere che anche una sviluppata competenza nella lettura del bilancio non assicura il risultato di percepire lo squilibrio patrimoniale in quanto la stessa disciplina di redazione del documento contabile stabilisce che i valori espressi nelle voci del bilancio possono non coincidere con quelli di mercato (art 2426 c.c.), potendo essere a volte superiori (come per le rimanenze) o inferiori (come per gli immobili).

Per tale motivo secondo l’id quod plerumque accidit questa percezione coincide con la dichiarazione di fallimento salvo la diversa prova che il deficit si sia manifestato in un momento anteriore, con l’avvertenza però che la prova deve avere lo stesso grado di notorietà che si ritrae dalla dichiarazione di fallimento.

Tale grado di notorietà può essere assegnato alla pubblicazione del bilancio che costituisce per sua specifica funzione il documento informativo principale sulla situazione della società anche nei confronti dei terzi, circostanza che porta però a classificare il bilancio in attivo o in pareggio uno strumento idoneo ad offrire un’informazione rassicurante ed affidabile sullo stato della società da cui dunque non si può desumere la perdita del patrimonio.

La Cassazione non vuole tuttavia escludere che, in presenza di una relazione negativa dei sindaci allegata al bilancio, la percezione dello scompenso patrimoniale sia comunque ricavabile ma in ogni caso la circostanza rimane oggetto di apprezzamento riservato al giudice di merito e al suo dovere di darne adeguata motivazione in sentenza.

In conclusione si registra da parte della sentenza in commento un’apertura a considerare le vicende che gravitano intorno al bilancio non astrattamente inidonee a consentire la percezione della perdita della garanzia patrimoniale purché concludenti in termini oggettivi e non suscettibili di valutazioni soggettive che comportino valutazioni, in quanto l’art 2394 c.c. rinvia ad un dato certo (“risulta”) che attiene a risultanze contabili di un attivo patrimoniale inferiore ad un passivo, circostanza che è ricavabile solo da un bilancio che dichiari la perdita del patrimonio netto.

Sotto tale profilo pare  poter concludere che la sentenza si allinea ad altre precedenti specificando che il successo della prova contraria affidata a chi indica un dies a quo anteriore rispetto alla dichiarazione di fallimento è affidata solo a quegli elementi, contenuti nel bilancio, che fossero inequivocabilmente percepibili dai creditori poiché resi evidenti da dati sintomatici di assoluta evidenza (il principio è tratto da Cass 830/2018 secondo cui la difficoltà economica e l’azzeramento del suo capitale non sono di per sé elementi di prova idonei a dimostrare la percettibilità dello scompenso patrimoniale a meno che non si traducano “in una definitiva perdita della potenzialità di soddisfacimento dei creditori inequivocabilmente percepibile dai creditori poiché resa evidente da dati sintomatici di assoluta evidenza”; cfr. altresì Cass 8516/2009; Cass 20476/2008).

I confini della responsabilità del sindaco per omissione dei propri doveri di vigilanza

Il secondo tema trattato in Sentenza è certamente di maggior impatto in quanto attiene all’ampiezza della responsabilità del sindaco in rapporto ai suoi compiti di controllo.

Anche in questo caso il merito della sentenza è riconoscibile nell’aver volto lo sguardo oltre il contesto a cui applica il principio, declinando un codice di comportamento a cui l’organo di controllo deve attenersi nello svolgimento del compito.

Il fatto contestato al collegio sindacale, nella fattispecie esaminata dalla S.C., è di non essersi opposto concretamente all’approvazione dei bilanci, contenenti artifici contabili e soprattutto, alla ripartizione di utili inesistenti, confortando, con la propria condotta omissiva, la percezione di salute economica della società, a nulla valendo le riserve espresse nella relazione sindacale sullo squilibrio patrimoniale, la sottocapitalizzazione, l’indebitamento e la stessa inadeguatezza dei fondi di ammortamento.

Nella fattispecie si intuisce che ai sindaci era affidato anche il controllo contabile, circostanza che certamente accresce la loro responsabilità per l’omesso accertamento degli artifizi operati su alcune poste di bilancio che hanno reso possibile la sua chiusura con un risultato positivo, ma che non incide assolutamente sulla portata più ampia delle indicazioni di condotta ritraibili dalla pronuncia.

Il legislatore attraverso l’art 2403 c.c. ha manifestato l’esigenza del controllo da parte dei sindaci “sull’osservanza della legge dello statuto sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ed in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento”.

L’arco dei poteri di controllo è esteso a tutta l’attività sociale con funzione di tutela rivolta ai soci così come ai creditori sociali rispetto ai quali non è sufficiente un mero e formale controllo della documentazione messa a disposizione dagli amministratori ma si estende al potere/dovere di chiedere notizie sull’andamento generale o su specifiche operazioni «operando attivamente per “mutare” condotte reputate non conformi a legge» (idem Cass 24/03/1999 n 2772; Cass. 28/05/1998 n 5287), allo scopo di garantire il rispetto dell’osservanza delle regole di corretta amministrazione.

Il dovere di intervento, manifestazione di quello di vigilanza espresso dall’art 2407 c.c., comporta l’obbligo di adottare ogni atto necessario al diligente assolvimento dell’incarico compreso la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate e, ove ne ricorrano gli estremi, la segnalazione al Pubblico Ministero.

Dunque il dovere di vigilanza non si esaurisce nella blanda ma inefficace critica alle condotte degli amministratori ma deve necessariamente allargarsi agli atti correttivi per ricondurre anche coattivamente la condotta degli amministratori su binari di legalità.

La conseguenza di questa interpretazione risiede nel fatto che ove sia dimostrata una illegalità nella condotta dell’amministratore e la sua conoscenza o conoscibilità da parte dell’organo di controllo, l’obbligo di adempimento ai propri compiti con diligenza e professionalità trova espressione in una reazione attiva e correttiva, volta a fare quanto è possibile per eliminare gli effetti negativi della condotta illecita.

La Cassazione precisa che questo tipo di responsabilità non è di tipo oggettivo per fatto altrui ma è rigorosamente omissivo per fatto proprio colpevole in quanto scatta in presenza di una omissione del sindaco nella fase di accertamento o di omessa reazione, adeguata alla gravità, alla condotta illecita (ovvero contraria alla legge o all’atto costitutivo) posta in essere dall’amministratore.

In altre pronunce dello stesso tenore la Cassazione ha avuto modo di chiarire che per la configurabilità della violazione del dovere di vigilanza imposto ai sindaci non è necessaria l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, essendo invece sufficiente che i componenti dell’organo di controllo non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, trascurando quindi di porre in essere quanto necessario per assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità riscontrate, ovvero denunziando i fatti al P.M., per consentire l’adozione delle iniziative previste dall’art. 2409 c.c. (cfr. Cass 13517/2014; Cass 24362/2013; Cass 2291/2010).

La questione assume una rilevanza particolare non già e non tanto di fronte a condotte isolate e platealmente illecite di mala gestio (distrazioni, distribuzione illecita di fondi ai soci, alterazione delle scritture contabili al fine di mascherare perdite), ma soprattutto rispetto all’adeguatezza degli assetti organizzativi, contabili ed amministrativi della società da cui dipende la capacità della società di rimanere sul mercato e si traduce nell’osservanza del dovere degli amministratori di conservare l’integrità del patrimonio sociale.

Il monitoraggio costante del going concern ovverosia della capacità di produrre risultati positivi e generare flussi finanziari nel tempo è funzionale alla libertà di tenere la bussola orientata alla massimizzazione dell’interesse dei soci di realizzare profitto attraverso l’assunzione di nuovo rischio d’impresa che trova limite nell’art 2394 c.c. che sanziona le condotte traslative del rischio sui creditori sociali in prossimità dell’insolvenza, obbligando gli amministratori a convertire la finalità della massimizzazione del profitto con quella della protezione del patrimonio sociale.

Dunque il dovere degli amministratori di monitorare in via continuativa la compatibilità della gestione con l’equilibrio economico finanziario dell’attività, si traduce nel dovere di rilevare tempestivamente i rischi che mettono in pericolo la continuità aziendale o i segnali premonitori della crisi.

Detto dovere costituisce manifestazione di un fascio di principi residenti nel libro V Titolo V del codice civile volti all’osservanza dell’obbligo di corretta amministrazione che trova espressione proprio nell’art 2403 c.c., nonché nel dovere degli organi delegati e del consiglio rispettivamente di curare e di valutare l’adeguatezza degli assetti organizzativi amministrativi e contabili (art 2381 e 2403 c.c.); nel dovere di istituire un sistema di controllo interno avente ad oggetto la correttezza e l’adeguatezza organizzativa; nel dovere degli organi delegati di riferire al consiglio sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione (art 2381 c.c.); nel dovere del CdA di esaminare, ove elaborati, i piani strategici industriali e finanziari (art 2381 c.c.); nel dovere di agire in modo informato; nel dovere degli amministratori di riferire nella relazione sulla gestione della descrizione dei principali rischi ed incertezze cui la società e sottoposta (art 2428 c.c.), degli indicatori di risultato finanziari, dell’evoluzione prevedibile della gestione nonché degli obiettivi e delle politiche della società in materia di gestione del rischio finanziario e del rischio di liquidità.

Il fascio di questi obblighi è espressione del generico principio di corretta e diligente amministrazione sulla cui costanza il collegio sindacale deve vigilare anticipando quanto possibile i sintomi premonitori della crisi per evitare di incorrere in un inatteso squilibrio economico patrimoniale.

Nelle fattispecie che giungono alla ribalta dei giudizi, sono ovviamente sempre descritte situazioni estreme che hanno portato le società al fallimento laddove il preventivo intervento correttivo del collegio sindacale anche eventualmente volto a sollecitare l’intervento del P.M. è in quei casi strumentale ad accelerare la dichiarazione di fallimento proprio per evitare un maggior pregiudizio alla platea dei creditori.

In una gestione ordinata e rispettosa dei principi di corretta e diligente amministrazione l’adeguatezza degli assetti è funzionale alla anticipata segnalazione dei prodromi della crisi che debbono volgere, secondo il parametro generale della diligenza, gli amministratori ad adottare le opportune iniziative al fine di prevenire l’insolvenza e promuovere il superamento della crisi avvalendosi dei diversi strumenti di risoluzione giudiziale o stragiudiziale della crisi d’impresa messi a disposizione dall’ordinamento agli artt. 67182 bis e 160 l.f.

Quindi il più delicato tra i compiti del sindaco è quello di accertarsi, attraverso la vigilanza sugli assetti organizzativi, del loro corretto funzionamento volto a rilevare i prodromi dello squilibrio con il dovere, non appena rilevato, di stimolare, anche attraverso la convocazione dell’assemblea, l’adozione degli strumenti giudiziali o stragiudiziali di risoluzione della crisi d’impresa; solo se gli organi rimangono sordi agli inviti a rimuovere le illiceità che possono mettere a rischio la presenza sul mercato della società e, soprattutto, il ribaltamento sul ceto creditorio del rischio dell’impresa, allora i sindaci possono giungere perfino alla segnalazione al P.M. attraverso il ricorso ex art 2409 c.c.

Quanto descritto è peraltro lo scenario ora codificato nella riforma del codice della crisi e dell’insolvenza in cui al sindaco sono affidati espressamente obblighi di segnalazione agli OCRI (Organismi di Composizione della Crisi d’Impresa) delle società i cui assetti sono sottoposte alla loro vigilanza ogni qualvolta siano rilevati squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario che diano evidenza della insostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso.

Sebbene l’obbligazione in questione non costituisca una novità, in quanto già ricavabile dal fascio di principi ed obblighi indicati nel codice civile ut supra richiamati, la normativa ora introdotta dal codice della crisi rappresenta un ancoraggio ancora più forte per lo svolgimento di un compito di controllo in autonomia rispetto all’amministratore nel solo rispetto degli interessi (certamente) dei soci, ma anche dei creditori.

Infatti la finalità della nuova normativa non muta se non in termini di declinazione più stringente dei compiti, la prospettazione degli obblighi cui è sempre stato soggetto il sindaco la cui azione deve essere esercitata all’insegna dell’assoluta indipendenza e della tutela del patrimonio sociale nell’interesse del ceto creditorio.

In merito al criterio equitativo di liquidazione del danno della differenza tra l’attivo ed il passivo fallimentare (c.d. del “deficit fallimentare”)

L’ultima occasione di riflessioni che deriva dalla lettura della Sentenza in commento è offerta dal rilievo che la pronuncia del giudice a quo impugnata con il ricorso in Cassazione aveva disposto sulla liquidazione del danno in termini equitativi facendo appello al criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare.

È interessante a questo riguardo fare un breve excursus di questo criterio di liquidazione che nel passato è stato utilizzato allorché all’amministratore fosse attribuita una condotta di generica inadempienza ricavata dall’evidenza di un danno rilevante subito dalla platea dei creditori, accompagnata all’assenza o completa inattendibilità della contabilità della società fallita, o fosse fornita la prova di una attività distrattiva sistematica responsabile dell’erosione del patrimonio e del dissesto della società (Cass 9252/1997; Cass 2538/2005).

Con il volgere del tempo tuttavia ha cominciato a farsi strada il diverso criterio della liquidazione equitativa che affida la sua determinazione alla differenza tra il patrimonio netto al momento in cui gli amministratori avrebbero dovuto percepire la perdita del capitale sociale e quello esistente al momento in cui la società è stata effettivamente posta in liquidazione, o alternativamente, è fallita, al netto dei costi ineliminabili della liquidazione calcolati secondo un criterio di normalità (Cass 2538/2005; Cass 941/2005).

La ragione di questo cambio di rotta sta nella considerazione critica per cui la determinazione del danno misurato sulla differenza tra attivo e passivo fallimentare perviene ad un risultato che attiene a due grandezze che non sono riconducibili alla condotta illecita degli amministratori, in quanto il passivo frequentemente ricomprendere anche posizioni debitorie anteriori al verificarsi dello stato di scioglimento mentre l’attivo fallimentare è frutto della condotta (recuperatoria/liquidatoria) del curatore (Cass 16211/2007Trib. Milano 23/09/2015 n 10652), con la conseguenza che detto criterio risulta scollato rispetto all’esigenza di rispettare il principio della regolarità causale tra condotta e danno richiesto dall’ordinamento all’art 2043 c.c.

Nel 2015 è intervenuta la Sentenza della Cass. a S.U. n 9100 che ha ulteriormente affossato l’applicazione di questo criterio stabilendo che “il mancato rinvenimento delle scritture contabili (ma lo stesso potrebbe dirsi per la loro irregolare tenuta)” non potesse giustificare la quantificazione del danno sulla base dell’intero deficit fallimentaree che il mancato rinvenimento della contabilità non impedisce al curatore la stessa individuazione di altri eventuali inadempimenti ascrivibili all’amministratore, potenzialmente idonei” …omissis… “a porsi come causa del deficit patrimoniale fatto registrare dalla società fallita”.

Con il che dunque si stabiliva che la liquidazione del danno risarcibile dovesse essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde verificare l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento.

Un’applicazione rigorosa di questo principio rischiava in ogni caso di risultare eccessivamente penalizzante nei confronti della curatela che si fosse trovata ad affrontare un giudizio di responsabilità in assenza di contabilità, obbligandola ad un onere probatorio “diabolico” per via dell’assenza di elementi a cui ancorare la quantificazione del pregiudizio, non riuscendo a fornire la dimostrazione di un momento iniziale della perdita del capitale sociale.

Peraltro la stessa Cassazione n 9100/2015 mitigava in parte la severità della propria statuizione aggiungendo che il ricorso ad un criterio di “sbilancio patrimoniale” fosse tuttavia possibile ove la mancanza delle scritture contabili rendesse difficile per il curatore una quantificazione ed una prova precisa del danno che sia di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita.

In virtù di questa apertura la Cassazione ha effettivamente ribadito almeno in un paio di circostanze (Cass 832/2018; Cass 2500/2018; Cass 24103/2018) che, salva la necessaria allegazione di un inadempimento dell’amministratore astrattamente idonea a porsi come causa del danno lamentato e l’indicazione delle ragioni che hanno impedito alla curatela l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo, il giudice ben può fare ricorso al criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare.

Il criterio della differenza tra attivo e passivo è peraltro stato da ultimo recuperato dal D.Lgs del 10 gennaio 2019 che ha varato il codice della crisi e dell’insolvenza il cui art 378 prevede proprio che ”se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”.

La recente soluzione normativa permette dunque il ricorso a detto criterio di liquidazione ogniqualvolta il danno non sia la diretta conseguenza della mancata tenuta delle scritture contabili ma di un inadempimento dell’amministratore indicato chiaramente dal curatore il quale tuttavia, per fatto e colpa dell’amministratore, si trovi nella incapacità di indicarne l’ammontare se non attraverso la differenza tra attivo e passivo accertati in sede fallimentare.

La norma pertanto, anche in funzione deflattiva, si fa carico di risolvere il contrasto giurisprudenziale esistente in materia e risolve l’obiettiva difficoltà di quantificare il danno in tutti i casi, nella pratica frequenti, in cui mancano le scritture contabili o le stesse sono state tenute in modo irregolare.


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