Sovraindebitamento: cade l’ultimo baluardo della infalcidiabilità dell’IVA


Con la sentenza n 245 decisa il 22/10/2019 e pubblicata il 29/11/2019 la Corte Costituzionale demolisce l’ultimo baluardo dell’infalcidiabilità dell’IVA nella L 3/2012 dedicata a disciplinare i procedimenti di Sovraindebitamento.

La questione trova espressione nell’art 7 comma 1 L. 3/2012 che stabilisce che: “in ogni caso con riguardo all’imposta sul valore aggiunto e alle ritenute operate e non versate il piano può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento“.

La disposizione normativa richiamata è comune tanto al Piano del Consumatore quanto all’Accordo di composizione della crisi anche se è destinata ad avere un impatto unicamente su quest’ultima atteso che la prima è rivolta al solo consumatore che ha assunto obbligazioni “esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta” che riduce a soli casi scolastici la possibilità di avere debiti di IVA o per Ritenute, tipiche dell’attività d’impresa, in capo al Consumatore.

Come noto invece analogo limite (ovviamente) non trova espressione nella procedura della Liquidazione del Patrimonio che, avendo una disciplina prossima a quella del fallimento, non distingue i crediti se non in base all’ordine legittimo dei privilegi.

L’art 7 co. 1 L 3/12 trova ispirazione nell’art 182 ter l.Fall nella versione anteriore alla legge 232/2016 che prevedeva analoga stringente prescrizione; in sostanza sia all’imprenditore sotto soglia che a quello soggetto al concordato preventivo era consentito proporre un pagamento parziale dei crediti privilegiati salvo che per il credito di Ritenute e di IVA che dovevano sempre essere pagate per intero indipendentemente dalla presentazione di una transazione fiscale e a prescindere dal basso grado di privilegio attribuito dalla legge a tali crediti nella graduatoria generale stabilita dagli artt 2778 c.c. dove occupano rispettivamente il grado 18) e 19).

La tesi della infalcidiabilità dell’IVA, ha ricevuto ripetutamente l’avvallo della giurisprudenza che se ne è occupata nel concordato attraverso le sentenze di Cass. nn 22931 e 22932 del 2011n 7667 del 2012; nn 9541 e 1447 del 2014n 18561 del 2016 e la definitiva benedizione della Corte Cost. che con la sentenza n 225/2014 aveva giudicato compatibile con la Costituzione la norma che favorisce il privilegio dell’IVA e Ritenute in deroga all’ordine stabilito dagli artt 2777 e 2778 c.c.

La ragione di questa impostazione risiedeva nella indisponibilità dell’IVA che in base agli artt 2, 250 paragrafo 1 e 273 della direttiva comunitaria IVA, obbliga gli Stati membri ad adottare tutte le misure legislative ed amministrative possibili atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio.

Per questa ragione la Corte Costituzionale affermava che “la previsione legislativa della sola modalità dilatoria in riferimento alla transazione fiscale avente ad oggetto il credito IVA deve essere intesa come il limite massimo di espansione della procedura transattiva compatibile con il principio di indisponibilità del tributo” (C. Cost. 225/2014).

In data 7/4/2016 si è tuttavia pronunciata la C.G.U.E. che ha stabilito la compatibilità con la normativa comunitaria in materia di IVA della legge nazionale che permette ad un imprenditore la falcidia dell’IVA sulla base di un piano concordatario sottoposto al controllo giudiziario e all’accertamento di un esperto indipendente che attesti che il debito IVA non potrebbe ricevere un trattamento migliore in caso di fallimento (ove peraltro la deroga all’ordine dei privilegi non opererebbe più).

A valle di questa decisione si è registrato un revirement della Cassazione che a Sez Un. nelle sentenze 27/12/2016 n 26988 e 13/01/2017 n 760 ha preso atto della pronuncia della C.G.U.E. e ha stabilito, contrariamente al passato, che l’infalcidiabilità dell’IVA non costituisce un principio di carattere generale, ma una prerogativa presente solo nelle domande di concordato accompagnate da transazione fiscale.

Quasi contemporaneamente il legislatore interveniva con l’art 1 comma 81 L n 232/16 (legge di bilancio 2016) con cui riscriveva l’art 182 ter l.Fall nell’attuale versione (“trattamento dei crediti tributari e contributivi“) che sostanzialmente consente al debitore in concordato di offrire un pagamento falcidiato dell’IVA (così come degli altri crediti fiscali e contributivi) salvo dimostrare che in sede fallimentare l’Amministrazione Finanziaria non riceverebbe un trattamento migliore, allocando il relativo credito in una classe separata per consentire sempre la facoltà di opposizione.

Dopo questi interventi normativi e giurisprudenziali l’art 7 L3/2012 è rimasto sino ad oggi invariato mettendo così in evidenza la disparità di trattamento ex art 3 Cost. tra l’imprenditore

soggetto al fallimento in base all’art 1 R.D. 267/1942 e quello c.d. minore che può accedere al procedimento di sovraindebitamento.

La disparità di trattamento risulta poi particolarmente evidente per l’imprenditore agricolo che in ragione dell’art.23 co 43 D.L.6/7/2011 n 98 è legittimato ad avvalersi degli accordi di ristrutturazione di debiti previsti dall’art 182 bis l.f. ai quali risulta estesa l’applicabilità del successivo art 182 ter l.f. con conseguente possibilità di falcidiare i debiti tributari compresa l’IVA.

Al contempo lo stesso soggetto può attivare anche l’accordo di composizione della crisi rispetto al quale tuttavia l’art 7 co 1 L 3/12 impone il divieto di falcidia dell’IVA.

Sulla base di questa disparità di trattamento all’indomani della sentenza della C.G.U.E. si sono registrati alcuni provvedimenti di Tribunali, variamente motivati ma per lo più concordi nella disapplicazione dell’art 7 co. 1 terzo periodo L 3/2012.

Tra questi si distinguono, per ricchezza di argomenti i decreti del Tribunale di Pistoia 27/04/2017 e del Tribunale di Torino 07/08/2017 che concludono per la disapplicazione della norma in commento, quanto al primo in virtù di una interpretazione conforme al diritto dell’Unione Europea e quanto al secondo in ragione della efficacia generale del principio della Corte di Giustizia Europeo che non permette trasgressione agli ordinamenti nazionali, rendendo peraltro superfluo il ricorso alla stessa C.G.U.E. che si esprimerebbe nello stesso modo.

A queste posizioni giurisprudenziali occorre tuttavia obiettare che il giudice deve disapplicare la normativa interna a favore di quella prevalente comunitaria in presenza di un precetto direttamente applicabile mentre nel caso della sentenza CGUE del 7/4/2016 il principio espresso appartiene a quelli c.d. non self-executing ovvero non immediatamente precettivi con la conseguenza che ove si riscontri una disarmonia incolmabile con la norma nazionale interna (com’è il caso dell’art 7 co1 L 3/2012 che è categorica nell’escludere ogni ipotesi contraria alla dilazione), la questione va rimessa al giudice delle leggi italiano.

Il Tribunale di Udine con Ordinanza del 14/5/2018 ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art 7, co. 1 terzo periodo L n 3/2012 limitatamente alle parole “all’imposta sul valore aggiunto” ritenendo tale disposizione in contrasto con gli artt 3 e 97 della Costituzione in considerazione della ravvisata disparità di trattamento tra l’imprenditore fallibile e quello sotto le soglie ex art 1 R.D. 267/1942 ai quali, in ordine al debito IVA, si prospettano soluzioni diverse per risolvere lo stesso problema di composizione della crisi.

A valle dell’ordinanza del Trib. Udine l’Agenzia delle Entrate, in data 23/07/2018, pubblicava la circolare n 16/E/2018 con cui affermava che le modifiche introdotte dalla L. 232 del 2016 in materia di transazione fiscale nel concordato preventivo, non avevano inciso sulle norme che regolano le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento che pertanto avrebbero continuato a recepire la sola dilazionabilità dell’IVA e delle ritenute come unica espressione transattiva dell’Amministrazione finanziaria.

L’intervento della Corte Costituzionale ora chiude definitivamente questo capitolo dichiarando incostituzionali le parole “all’imposta sul valore aggiunto” presenti nell’art 7 co. 1 terzo periodo L 27/01/2012 n 3: la conseguenza è la possibilità immediata di depositare istanze di accordo di composizione della crisi ex art 10 L 3/12 senza prevedere alcun trattamento differenziato a favore dell’Amministrazione finanziaria che potrà essere trattata alla stregua di qualsiasi altro creditore privilegiato con facoltà di degrado al chirografo del credito IVA per la parte eccedente il valore dei beni gravati del privilegio, secondo l’attestazione operata dagli OCC.

Occorre al riguardo osservare che la sentenza della Corte Costituzionale anticipa gli effetti della riforma della L 3/12 introdotta dal Codice della Crisi e dell’Insolvenza che per la procedura omologa a quella dell’Accordo di Composizione della Crisi (che prende il nome di Concordato Minore, cfr artt 74 e ss CCII) non prevede più la diversificazione di trattamento tra il credito IVA e ogni altro credito privilegiato.

Il giudice rimettente ha chiesto la dichiarazione di incostituzionalità del solo trattamento del credito IVA e non anche (non potendolo fare per assenza del relativo credito nella procedura trattata) del credito per Ritenute.

Nel concordato preventivo la L 232/2016 ha ovviamente riformato l’istituto dell’art 182 ter l.f. secondo l’attuale versione, sopprimendo il vantaggio prima accordato al credito da Ritenute che per altro, non gode più di ogni altro credito tributario, di una particolare indisponibilità di matrice comunitaria.

L’auspicio è che l’A.E. spontaneamente rinunci ad aggrapparsi al sottile distinguo esistente in ordine al trattamento del credito IVA (la cui infalcidiabilità è dichiarata incostituzionale) e del credito per Ritenute (su cui la Corte Costituzionale non ha avuto modo di esprimersi per limiti oggettivi della domanda), accettando domande di accordi ex art 10 L3/12 con falcidia anche delle imposte per Ritenute, scelta che produrrebbe l’effetto di incrementare finalmente l’utilizzo nella procedura di sovraindebitamento dello strumento dell’accordo che a causa delle rigidità sino ad ora mostrate dall’A.F. è stato impiegato al di sotto delle potenzialità penalizzando la platea dei creditori e la stessa Agenzia delle Entrate.


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